Come abbiamo brevemente visto nell’articolo precedente riguardante il mining, la proof of work è di vitale importanza per Bitcoin, ma non è esente da critiche, specialmente per quanto riguarda il consumo energetico.
C’è chi obietta come sia abnorme, per il servizio reso da Bitcoin, e chi invece lo reputa un giusto “prezzo da pagare” per poter fruire di una moneta non manipolabile da governi e da banche centrali, ma al di là di questo, l’opinione pubblica è spesso molto colpita dal consumo energetico del mining, e per lo più, negativamente.
Con l’avvento delle altcoin, in molti si sono dati da fare per trovare un metodo alternativo che garantisse una sicurezza paragonabile a quella di Bitcoin, utilizzando però una frazione del dispendio energetico, spesso facendo di questa caratteristica, vera o supposta, uno dei cavalli di battaglia.
Quindi quello che si cerca di creare è un meccanismo di consenso alternativo, dove per meccanismo di consenso si intende una maniera di coordinare le macchine partecipanti alla rete senza l’utilizzo di un unico centro di comando. In un ambiente distribuito, quindi.
In altre parole, raggiungere un accordo su quali voci debbano essere aggiunte al registro.
Superare questa sfida è stata probabilmente la fase più cruciale nella strada che ha portato all’avvento della blockchain, il coordinamento di più parti, tra loro sconosciute e prive dell’elemento fiduciario che è necessario negli enti centralizzati.
Vi fidate della vostra banca, no?
Sebbene non lo citi nel nome, anche la proof of work suppone che i partecipanti attivi della rete (i minatori), abbiano uno “stake”.
Lo stake sono le macchine e l’energia utilizzata per il mining.
Questo “stake” scoraggia ad agire in modo disonesto, il frutto del lavoro dell’attore fraudolento verrebbe rigettato dal resto dalle rete e lui ne avrebbe une perdita economica.
In linea di massima, le varie proof aderiscono a questo concetto base e dovrebbero condividere questi punti cardine:
Stake, o quota di partecipazione se vogliamo, che rischia di essere persa o portare a perdite economiche derivate dalla sua infruttuosità.
Ricompensa, necessaria perché qualcuno decida di impegnare le proprie risorse nell’attività.
La trasparenza, in quanto la rete necessita di poter vedere se e quando un attore stia tentando di barare.
La proof of stake.
In realta, la proof of stake non è successiva a Bitcoin, in quanto fu considerata da chi perseguiva l’idea di una moneta slegata da enti centrali, prima dell’avvento dello stesso.
A differenza della pow, non ci sono risorse materiali messe a collatere, come “garanzia”. C’è una certa quantità di energia elettrica, certo, ma risibile rispetto a Bitcoin.
La grande differenza qui, è che la risorsa messa in gioco è la criptovaluta stessa.
Ogni altcoin ha dei tratti somatici differenti a seconda di quello che decidono gli sviluppatori, ma indicativamente per essere parte attiva dello stake, bisogna avere una quantità minima di criptovalute all’interno di un portafogli.
Esse sono bloccate sino a che si decide di essere validatori. Un validatore ha lo scopo di selezionare le transazioni che andranno nel blocco successivo. La rete sceglierà poi quale blocco introdurre elargendo una ricompensa qualora scegliesse quello del validatore.
Il validatore è tenuto a scegliere unicamente transazioni lecite, pena la decurtazione parziale o in toto, del proprio stake.
Molte di queste monete puntano sulla distribuzione iniziale delle monete via ico oppure in premining, con un funzionamento simile a quello utilizzato per Bitcoin.
Non c’è ancora coesione da parte degli esperti sulla sorte del pos nel lungo periodo.
La paura è che le monete si accentrino a tendere, nelle mani di pochi partecipanti.
Proof of burn.
Anche di quest’ultima esistono diverse varianti.
Concettualmente non si discosta molto dal funzionamento della pow, ma non si serve di macchinari specializzati ed il consumo energetico è una frazione di quello della pow.
La risorsa utilizzata nella pob è la stessa criptovaluta “bruciata” e “investita” in piattaforme di mining virtuali. Il concetto può apparire astruso, ma è quello che accade nella pow, dove i guadagni vengono utilizzati per comprare altro materiale fisico per aumentare la propria potenza di calcolo, solo trasposte nel mondo virtuale.
Quindi, più monete si bruciano, maggiore è la potenza di calcolo che si ha a disposizione.
All’atto pratico queste monete vengono spedite verso indirizzi pubblici e trasparenti all’interno delle quali diventeranno poi inutilizzabili, creando ovviamente scarsità ed influendo sul prezzo.
Ci sono addirittura protocolli che “bruciano” Bitcoin, mentre solitamente viene bruciata la moneta nativa.
Ad oggi esistono decine di alternative alla pow, tutte da mettere alla prova sul campo.
Probabilmente verranno testate dal tempo e buona rilevanza l’avrà pure la capitalizzazione (più alto il valore in cassaforte più alta sarà la tentazione di scassinarla).